Utilizzando il parametro del Fondo Monetario Internazionale per la globalizzazione, ovvero la somma delle esportazioni e delle importazioni di tutte le economie in rapporto al prodotto interno lordo globale, la globalizzazione ha iniziato a rallentare dopo la crisi finanziaria del 2008. Ora la guerra in Ucraina e l’aumento della concorrenza geopolitica minacciano di rallentarla ancora di più. Sebbene il commercio mondiale abbia raggiunto un record di 32.000 miliardi di dollari nel 2022, i principali blocchi commerciali si stanno chiudendo in sé stessi, in nome della sicurezza e della competitività nazionale.
Le aperture degli scambi commerciali, decollati negli anni Cinquanta, dopo la Seconda Guerra Mondiale e con la fine della Guerra Fredda negli anni ’80, per poi accelerare al momento della costituzione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 1995, hanno permesso alla Cina di superare gli Stati Uniti e diventare, ad oggi, la più grande nazione commerciale.
Questa svolta nell’assetto geopolitico ha creato molte tensioni a livello internazionale, tale per cui oggi stiamo assistendo in maniera più o meno evidente all’attuazione di politiche di Re-shoring e dunque ad un ricollocamento delle attività produttive nei rispettivi territori nazionali, trainati da ingenti sussidi ed incentivi governativi.
Si tratta di un cambiamento che potrebbe avere conseguenze significative per le condizioni macroeconomiche, i rendimenti e i rischi dei mercati finanziari. In effetti, generalmente si ritiene che un’economia meno aperta possa far prevedere un tasso di inflazione moderatamente più elevato, che andrebbe a ridurre la crescita globale.
Questa regionalizzazione non è un ritorno al nazionalismo degli anni ’30, ma una ricerca di una via di mezzo tra quest’ultimo e un commercio globale senza restrizioni.
La deglobalizzazione del commercio è cominciata, appunto, con la crisi finanziaria del 2008, ma la pandemia ne ha determinato un’accelerazione: le misure protezionistiche in vigore nel mondo sono salite a circa 3mila, tra dazi, sanzioni e quote di esportazione con un incremento del 714 per cento dal 2008 al 2022.
Il ritorno al protezionismo commerciale riguarda anche l’Unione Europea, con 350 differenti obblighi normativi da rispettare in fase di import e di export, e rappresenta un fattore di notevole complessità per tutti gli operatori che operano nel commercio internazionale.
Dazi europei sulle autovetture elettriche cinesi
Più recentemente, forte del regolamento europeo 2016/1037 relativo alla difesa contro le importazioni oggetto di sovvenzioni provenienti da paesi non membri dell’Unione europea, la Commissione ha attuato nei precedenti nove mesi un’indagine finalizzata a verificare l’ammontare dei sussidi pubblici erogati a favore dei produttori cinesi di auto elettriche. È emerso che le maggiori aziende cinesi dell’automotive stanno percependo aiuti che le consentono di esportare le loro autovetture in Europa a prezzi inferiori al costo di produzione, attuando, di conseguenza, una concorrenza sleale.
Per cercare di disincentivare l’acquisto di tali autovetture, la Commissione europea sta valutando di aumentare i già presenti dazi, che ad oggi sono del 10%, in base all’ammontare di sussidi che l’azienda in questione ha percepito e in base alla collaborazione e trasparenza mostrata con l’esecutivo europeo.
In ordine decrescente, SAIC sarà soggetta a ulteriori dazi del 38.1%, Geely del 20.0%, BYD del 17.4% e le rimanenti aziende del settore saranno sottoposte ad un’aliquota media del 21.0%.
Gli analisti affermano che tale politica potrebbe avere effetti negativi sulla domanda qualora l’ammontare complessivo dei dazi superasse il 50.0%
I dazi saranno operativi in via provvisoria dal 4 luglio 2024 e probabilmente in via definitiva a novembre dello stesso anno.
A titolo esemplificativo, se si considerasse la gamma di BYD, la Dolphin costerebbe € 36.150 rispetto ai precedenti 30.790; mentre, per il marchio Volvo (facente parte del gruppo Geely) vedrebbe il modello EX30 passare ad € 42.150 rispetto ai precedenti € 35.900. I prezzi si considerano per i modelli puramente base.
Questa azione non andrà a colpire solamente le aziende cinesi, ma anche le case automobilistiche europee che producono in Cina. Esempio è BMW che produce la nuova Mini Cooper elettrica grazie alla joint venture “Spotlight Automotive” con il gruppo cinese Great Wall Motor.
La scelta europea di perseguire questa strada deriva in primis da un’arretratezza tecnologica per il segmento elettrico e, in secondo luogo, dalla volontà di indurre l’apertura di ulteriori stabilimenti produttivi nel vecchio continente, tramite l’elargizione di sussidi statali o per effetto di una convenienza rispetto al costo/beneficio di detenere un’attività al di fuori dei confini nazionali.